La voce riassicurante della mamma e qualche scrollatina leggera mi riportarono lentamente alla realtà. Ma io, come ai tempi in cui ero una bambina capricciosa che non voleva andare a scuola, mi rigirai dall’altra parte del letto, acciambellando il mio corpo e stringendo le lenzuola calde come se qualcuno volesse portarmele via. La mamma però era ancora lì, e con la sua infinita pazienza mi massaggiava le spalle invitandomi ad alzarmi.
Mi voltai verso di lei accennando un lieve sorriso, spalancando le braccia per chiedere il primo abbraccio del giorno e lasciandomi trasportare dal suono più bello del mondo, ovvero quello del proprio nome pronunciato da qualcuno che ami.
Mi alzai, indossai le pantofole a forma di tartaruga e camminai verso la cucina con gli occhi semichiusi, cedendo alla sublime tentazione del profumo di torta appena sfornata. Quella fragranza dolce del burro mischiato allo zucchero mi fece passar via la voglia di tornare a dormire ed era giusto quello che ci voleva per cominciare bene il primo giorno d’autunno!
Guardai attraverso il finestrone le foglioline gialle comparse sugli alberi del nostro giardino qualche giorno fa, immergendomi in quella sensazione di equilibrio tipica dell’equinozio, quando i momenti di luce e quelli di buio si trovano in perfetta sintonia.
Per gli abitanti del mio paese, che conducono ancora una vita lenta secondo i ritmi delle stagioni, questo fenomeno astronomico segna la fine della mietitura e dopo il duro lavoro dei campi si può finalmente godere dei frutti delle proprie fatiche. Ma come raccontava sempre la nonna, che di fatiche se ne intendeva, bisognava essere parsimoniosi e pensare all’arrivo dell’inverno, accumulando le provviste per i mesi più duri dell’anno.
Io e mia sorella divorammo quella torta come se fosse il nostro ultimo pasto, mentre gatto Hercules mangiava le molliche cadute sotto il tavolo. “Se volete venire a fare la vendemmia dovete sbrigarvi!” Aggiunse la mamma mentre portava via di corsa la marmellata, le tazze e i piattini ormai svuotati.
La nebbia galleggiava fra le filiere bagnate da minuscole goccioline d’acqua, facendo risalire l’odore fresco del terreno e dissipando la fragranza dolce e pungente dell’uva matura. Il rumore delle ruote di ferro delle carriole e le voci dei paesani che si salutavano a vicenda si fondeva col ronzio degli insetti ed io non vedevo l’ora di cominciare!
Per noi la vendemmia non era un lavoro, ma un’occasione per ritrovarsi in allegria con le altre famiglie, con cui magari non ci si vedeva da un bel po’. Un momento per fare festa, per condividere un pranzo distesi sotto il sole, con lo sguardo perso sul dorso dei colli, oppure in cantina, pervasi dal profumo del mosto, dove si rideva e si scherzava rinnovando così vecchi legami.
Ricordo che mi piaceva tanto togliermi le scarpe e sentire quella sensazione di freschezza della terra ancora umida che contrastava le gocce di sudore che scivolavano sul mio viso. Ogni tanto, per spezzare il ritmo, le mie dita tinte di viola accarezzavano la schiena della mia cagnolina Pindy che restava sempre accanto a me, immobile e con la lingua di fuori, accovacciata sotto le viti.
Mi piaceva dissetarmi mangiando quei chicchi tondi e succosi, conditi al sapore inebriante di sole, mentre osservavo gli stormi di chissà quali uccelli volteggiare sopra la mia testa.
Per la gente di campagna questo momento dell’anno rappresenta il trionfo della luce, ma anche l’inconscia e atavica paura delle tenebre che possono piombare minacciose se il raccolto non è stato abbondante. Nei paesini sperduti come il nostro, dove il tempo ha una dimensione diversa da quello delle città, dopo l’aratura si effettuano diversi riti locali, semplici e genuini come gli abitanti di questi luoghi.
La mamma ad esempio, fin dai tempi in cui era una bambina, trascorreva i suoi pomeriggi d’autunno raccogliendo bacche, foglie e rami con cui decorare la casa.
Da noi non mancavano mai le candele, i centro tavola fatti a mano coi colori tipici della stagione e alcuni rametti di salvia appesi su porte e finestre. Se il raccolto era stato abbondante ci piaceva riempire delle ceste con frutta e verdura di stagione, che erano posizionate all’ingresso e poi offerte in dono a chi veniva a farci visita.
Le sere in cui la temperatura era ancora gradevole, io e mia sorella uscivamo a passeggiare nei boschi portando con noi gli avanzi della cena per nutrire gli animali, perché anche loro dovevano preparare le provviste per l’inverno e, come ci aveva insegnato la nonna, chi abita nei campi è tenuto a dare una mano.
Il sole del primo pomeriggio illuminava i miei piedi scalzi quando la fatica fece la sua comparsa. Avevo la pelle appiccicosa di sudore, i capelli scompigliati e le gambe stanche ma, a giudicare dalle facce che vedevo intorno a me, neanche gli altri se la passavano poi così bene. Le risate e gli scherzi del mattino si affievolirono col passare delle ore, lasciando il posto a un debole e anonimo mormorio che più che altro serviva per riempire il silenzio.
Consegnai le mie forbici a zio Fausto, segnando così la mia sconfitta, e mi sdraiai nella parte più alta della collina con gli occhi socchiusi, sognando il vibrante stridio di uno stormo di rondini che solcavano il cielo, probabilmente ignare dei mille pericoli che avrebbero dovuto affrontare durante il loro lungo viaggio verso luoghi più caldi.
Ma non era un sogno. L’autunno era davvero arrivato.